Il museo del Design Italiano della Triennale di Milano è stato presentato alla stampa con una conferenza a cui ha fatto seguito la visita alla mostra.

Alla conferenza hanno preso la parola Stefano Boeri, Presidente Triennale Milano, Joseph Grima, Direttore Museo del Design Italiano e Mario Bellini, architetto e designer. Come sempre, mancava completamente una quota rosa, come se non ci fossero personaggi femminili che hanno segnato la storia del design italiano. Ma questo è un altro problema, di cui mi occuperò in altra sede.

La visita al museo mi ha innescato profondi e limpidi ricordi d’infanzia: in quanto classe 1963 e figlia di genitori amanti dei prodotti frutto di  innovazioni tecniche e formali (d’ora in poi lo chiameremo Design), avevo la casa piena di Design: la lampada Arco di Castiglioni e le poltrone Carimate di Vico Magistretti erano nell’ufficio e mi ci sedevo quando andavo a trovare papà e ogni tanto giocavo con i suoi telefoni azzurri Olivetti Office 1. Sulla scrivania teneva l’orologio Static di Sapper e alla parete usava il calendario Formosa di Enzo Mari.

A casa, sul mio comodino, la piccola Eclisse di Magistretti rosso arancio mi teneva compagnia nelle notti di febbre, quando mia mamma la teneva accesa ma completamente “eclissata” per venire di tanto in tanto a controllare come stavo.

Ogni sera, sulla scrivania di papà, la Divisumma 18 gialla di Bellini lo aiutava a fare i conti della giornata mentre io mi divertivo con la poltrona P40 Tecno di Borsani.

Ricordo poi di aver preparato la mia tesina di geografia per l’esame di terza media battendola a macchina con la Lettera 32 di Olivetti.

Ovviamente, per me, questi pezzi allineati uno dietro l’altro sono un déjà-vu, ma io non sono il fruitore tipo di un Museo del Design Italiano. Sono un architetto di 56 anni, un giornalista, una che ha vissuto negli anni del boom economico italiano, del fiorire dell’industria e del design. Per me e per quelli delle mia generazione un museo così non è altro che una wunderkammer dei ricordi d’infanzia. Ma ne possiamo trovare tante altre, bazzicando i mercatini vintage e dell’usato. Questo non è il museo del Design Italiano che vorrei.

Il Museo del Design Italiano che vorrei è quello che mostra i pezzi iconici della produzione industriale dagli anni ’60, ma che fa capire ai giovani, agli stranieri, a chi non ha mai visto una Taccia, una Sacco o una Pipistrello, perché quegli oggetti sono lì, perché quelli e non altri. Il Museo del Design Italiano che vorrei è quello che spiega di quali materiali sono fatti gli oggetti, materiali che hanno permesso l’inizio delle produzioni in serie; spiega quali sono state le innovazioni tecniche che i progettisti hanno inventato per far muovere gli oggetti o per sostenerli; mostra l’interno delle imbottiture, le strutture di sostegno, il perché di una forma associata a un materiale.

Per esempio, quanti sanno che i braccioli della P40 Tecnoa sono fatti di una gomma elastica che grazie a un giunto particolare e a uno scatto possono essere posizionati ad arco all’insù o all’ingiù a seconda di come si vogliono tenere le braccia? E che sotto al sedile sono posizionati un poggiapiedi e un allungamento metallico che si aprono grazie a un sistema di due pomelli a spinta? E che la sezione della testa si può alzare? Penso siano in pochi e io lo so solamente perché mi ci divertivo quando ero piccola. In visita al Museo, colui che guarda la bella poltrona rossa appoggiata sul suo cubo bianco non capisce, semplicemente perché non può capire, nulla della poltrona stessa, perché non la può toccare, non ci si può sedere, nessun video o slide o disegno gli spiega esattamente come è fatta e a cosa servono tutte le sue parti.

Questo non è il Museo del Design Italiano che vorrei, ma solo la vetrina di un negozio per appassionati di vintage. Siamo e siamo stati artisti, architetti, designer: perché dobbiamo scivolare e cadere quando altri si elevano con molto, ma molto meno?