Anche quest’anno, come ormai da ben 58 anni, Milano ospita il Salone Internazione del Mobile. Una fiera riservata agli operatori del settore dei mobili e complementi, che rimarrebbe molto meno nota ai più se non fosse per quel matto di suo fratello: il Fuorisalone, che quest’anno compie 30 anni. Ma il Fuorisalone ci piace ancora?

Testo e immagini: Maria Rosa Sirotti

Inizialmente all’ombra del suo fratello maggiore, piano piano il Fuorisalone ha iniziato a vivere di vita propria e a sviluppare un suo preciso carattere, vivace e anticonformista. Staccandosi dalla pura logica dell’arredo e del complemento, da sempre appannaggio del Salone del Mobile, ha scoperto le sue carte mondane, tramite il gioco, peraltro riuscitissimo, delle installazioni e degli eventi.

Due termini che hanno segnato l’inizio di una nuova era per Milano, che si aggiudica ancora una volta il titolo di città più europea d’Italia. Un nuovo corso, che ho visto nascere e svilupparsi proprio sotto ai miei occhi, di architetto prima e di giornalista poi. Ma facciamo un passo indietro.

Zona Tortona è stata apripista di quello che poi è diventato un Fuorisalone “diffuso”.  Ma com’era prima la zona delle vie Tortona e Savona? Un insieme di spazi industriali dismessi, officine, tornerie, capannoni, che nessuno voleva. Il Salone era il ritrovo serio degli espositori, dei giornalisti, degli architetti, con la presentazione della nuove collezioni e delle innovazioni tecniche relative. A Zona Tortona scoprivi, sperimentavi, ragionavi e ti stupivi.

La lungimiranza dell’operazione li ha trasformati in perfetti spazi espositivi, sia perché dotati di elevate altezze, sia perché a pianta libera, con enormi spazi unici. Era il luogo perfetto per le prime installazioni spettacolari, alte, enormi, impossibili da piazzare in spazi “normali”.

Nasceva così la zona più pazza di Milano, aperta ad artisti, designer e creativi di tutto il mondo. Per la prima volta il mobile era una debole scusa e la creatività, la voglia di fare qualcosa di diverso diventavano irrefrenabili. Anni bellissimi, in cui non vedevo l’ora che arrivasse il Salone, per andare dal suo fratello pazzo a divertirmi, ad assaporare ogni frammento di creatività. E ce n’era veramente tanta.

Zona Tortona nasceva con lo scopo ben preciso di presentare il Design al mondo, anche a chi non era direttamente coinvolto nel processo produttivo e distributivo. Molti giovani designer e quelle che oggi chiamiamo “Start-up” trovavano la possibilità di far conoscere il loro prodotto, spesso anche uno solo, che mai altrimenti avrebbero potuto presentare, sia per problemi di costi che di spazi. Quanti oggetti interessanti vedevo in quegli anni diventare poi produzione industriale e di uso comune, quanti ragazzi con idee vincenti ho visto trasformarsi in aziende di successo! Spesso perché era il pubblico stesso che ne decretava il successo, il gradimento.

L’aspetto ludico andava di pari passo con quelli molto seri della sperimentazione delle forme e dei materiali. Nell’arco della settimana, inserivo tranquillamente due visite in fiera e un po’ di mezze giornate a Zona Tortona, riuscendo addirittura a rivedere più volte i pezzi che mi erano piaciuti o che meritavano un approfondimento. Poi qualcosa cambiò. Tortona non era più sola: era arrivata Brera.

Brera era la sorellina più elegante, più classica, molto bon ton. Oltre alla Pinacoteca e all’Orto Botanico, a Brera avevano sede i marchi più importanti del design, con i loro negozi di rappresentanza, che si estendevano fino a San Babila, via Durini, via Senato, via Montenapoleone e via Brera. Colossi come Baccarat, Fontana Arte, Flos, Molteni, De Padova, Foscarini, e grandi nomi della moda come Versace entravano nel vortice del Fuorisalone. I party serali si moltiplicavano e diventavano sempre più esclusivi.

Un importante contributo alla storia del Fuorisalone viene dall’Università Statale di via Festa del Perdono che diventava, con i suoi tanti cortili e porticati, una location perfetta per installazioni di ogni genere e dimensione.

Anche il vicino Corso Venezia e le zone adiacenti entrarono nel vortice, creando “Porta Venezia in Design” e regalarono alla città la possibilità di visitare le storiche dimore nobiliari e i palazzi che vi si affacciano. Fu così che eventi e installazioni “contaminarono”  con la loro allegria e i loro colori i serissimi e antichi palazzi che, per una settimana, tornavano a nuova vita. Ricordiamo Palazzo Serbelloni, Palazzo Clerici, Palazzo Bovara, Palazzo Bocconi, Palazzo Cusani e Palazzo Isimbardi.

Anche la zona di Corso Magenta, via Meravigli e San Maurilio, ricca di palazzi d’epoca come Palazzo Litta e Palazzo Turati, fondava un suo distretto chiamandolo 5 vie.

Un discorso a parte è quello di Ventura Project, che cominciava la sua esperienza nella zona di Lambrate, decisamente distante e difficile da raggiungere, da cui poi si scindeva per posizionarsi nei vecchi magazzini sotto ai binari della Stazione Centrale, in via Aporti, originando così il distretto più innovativo del Fuorisalone, che oggi ha preso il posto di quello che fu per Milano la Zona Tortona dei primi anni.

Come un’epidemia, il fenomeno si allargava a macchia d’olio, e si formavano man mano altri distretti come 5vie, Ventura Centrale, Isola, Lambrate District e In Bovisa. Gli ultimi due troppo distanti e difficili da raggiungere.

E siamo arrivati al 2019, anno in cui si contano circa 1400 eventi nella città. Ed è qui che rispondo alla domanda: sì, il Fuorisalone ci piace ancora tantissimo e ne siamo fieri, ma è diventato troppo. “Tanto è bello, troppo no”. Ovvero, se c’è qualcosa da raccontare, da mostrare, che si inserisce in un contesto legato al Design, allora ben venga l’installazione e il relativo evento. Se c’è esclusivamente il desiderio di “esserci”, di essere presenti a tutti i costi in qualunque parte della città, allora dico no. Se il prodotto presentato non ha una connessione logica con i temi del design e della innovazione, non deve essere inserito nel circuito. Oggi tutto è diventato design, tutto è in mostra. Ma non è così e questa perdita di scopo e di identità sta sfuggendo di mano e si sta trasformando in un caos ingestibile e in una contaminazione senza logica. Ben venga la riqualificazione delle aree dismesse o periferiche, ma dobbiamo arginare la contaminazione: perdere lo scopo principale, la dimensione a misura d’uomo, la possibilità di guardare e assimilare, capire, ricordare rischia di svalutare il tutto. Rischiamo che il Design perda il suo significato e diventi sinonimo di atteggiamenti, oggetti e persone che nulla hanno a che vederne.